Festa Patronale

02.12.2011 20:27

Archiviata anche questa estate che, fortunatamente, quando è mite come quest’anno, consente di gustare con giusto equilibrio riposo, piccole attività ludiche, svago e spostamenti tra mare e montagna. Da noi, ma al Sud in generale, ogni giornata, calda o mite, afosa o ventilata che sia, si chiude con i fuochi d’artificio di una delle tante feste paesane. Da secoli, comunque, ci sono centri di grande richiamo devozionale, per fatti o avvenimenti miracolosi o per il Carisma della figura venerata, in cui una miriade di genti viene richiamata oltre che per devozione anche dalla grande festa o dalla grande fiera ad essi legati. Appuntamenti fissi annuali che non si perdevano per nulla al mondo. Per il resto, in giro, ci si limitava alla ricorrenza religiosa e a molto modeste feste patronali. Da un decennio però, nelle nostre zone, di anno in anno, si assiste ad un rincorrere una sorta di vana gloria per chi riesce a superarsi in sfarzosità, a “chi li spara più grosse” concentrandosi al cosiddetto “programma civile”, relegando e riservando le antiche “novene” alle sempre meno numerose pie donne. Processioni interminabili senza una posta di rosario, cercando di fare in fretta per prepararsi per la festa. Candidoni era, per antonomasia, il posto più “povero” di mondanità patronale. Poca gente, pochi soldi, pochi lustrini. Non esistevano i fuochi nè fuochisti, ma solo qualche “fùrgulu” sparato in casa, ad evidenziare i tempi topici delle processioni. Da qualche tempo, però,  anche Candidoni sembra essere sceso in competizione, con l’opera meritoria di qualche devoto appassionato. Immagino si faranno i salti mortali per racimolare l’occorrente, ma, evidentemente non basta. La programmazione supera di gran lunga ciò che si riesce a raccogliere e la brutta figura incalza, come se qualcuno abbia posto dei paletti. Voci di piazza parlano di cifre irrisorie, di note indicibili. “I candidunisi” si notano cinque euro o addirittura due e mezzo, ma, pur tentando, non si scoprono i nomi. Forse, alla fine, si capisce di un errore di punto algebrico, una svista. Ecco che è necessario un intervento consistente, nella vana convinzione che non va ad intaccare le tasche di nessuno. Si chiede l’intervento pubblico, che possa, almeno in parte, garantire la buona riuscita degli eventi festosi. Purtroppo a chiederlo è il parroco. “considerato che….. il programma civile sarà:….e che per tali manifestazioni si prevede una spesa di ...., Si chiede un congruo contributo… Proprio così. Un congruo contributo per il programma civile. Ma come? È stato necessario chiedere somme per l’ostensorio, per i nuovi messali, per la corrente elettrica, per i poveri, per la casa famiglia, per… Il parroco non chiede per il programma civile o almeno non dovrebbe. Ma tant’è. Non di meno, la parte pubblica risponde con entusiasmo a tale “grido di dolore”, per oltre la metà di tale somme, impegnandosi a sostenere tanta tradizione e costume. “Per assicurare la promozione dei valori sociali, economici, culturali e politici che costituiscono il suo patrimonio di storia e tradizioni, operando affinché esso conservi, nel processo di sviluppo e di rinnovamento, i valori più elevati di una forte tradizione popolare” si legge nell’atto amministrativo di concessione, anche se sembra frutto di qualche copia e incolla. Ma, da una accurata ricerca, nella seppur povera letteratura locale, l’unica traccia di tradizione ricorrente garantita riguarda il tamburo. Quello che impressiona, diciamo così, non sono le cifre in se, che tutto sommato sono irrisorie, quanto le percentuali che rappresentano se si ragiona in termini di bilancio o, peggio, di confronto nell’utilizzo dei soldi pubblici (banalmente considerati non delle proprie tasche) nei vari settori d’intervento. Se si dovessero, ad esempio, considerare le somme utilizzate per il sociale (= bisognosi) siamo a livello di salvadanaio, per non parlare delle sarcastiche considerazioni che seguono ad ogni richiesta. Settemila euro per le strade che si è portato via il maltempo fanno masticare a vuoto chi ha perso il raccolto. Ma tant’è, ancora, le tradizioni, gli usi e i costumi legati alla “fervida devozione patronale” hanno la precedenza, andando ad assorbire, superando di gran lunga ogni precedente intervento, addirittura lo 0,77 % del bilancio previsionale comunale. Ma come si può pervenire ad una così brillante partecipazione, non potendo fare richiesta direttamente il Comitato, per ovvi motivi di “conflitto d’interessi” e non potendo, nemmeno, provvedere direttamente ad elargire contributi sotto forma di sponsor (non contemplati dalla legge)? Non resta che la “collaborazione” del Parroco. Eppure i parroci dovrebbero limitarsi al sacro, non inquinare il proprio ministero con la gestione della parte frivola dell’evento festa. E’ già tanto che debbano curare gli aspetti pratici della gestione della parrocchia, non potendo delegare altri in assenza di consiglio pastorale. Ma proprio per la mancanza di tale organismo la gestione dovrebbe essere, quindi, complessiva, e non limitarsi ad una sola parte. Ma, accantonata per un attimo la malafede,(mia) bisogna riconoscere il consuntivo delle spese sostenute, dal quale, però, qualcosa oggettivamente non torna. A fronte di un contributo di 8.500 euro ricevuto, la parrocchia spende un totale di 15.300 euro. Su tale spesa totale calcola 989,00 (589,00 euro cioè il 10% di quale cifra? + 85 +85 euro a sua volta 1.5% per diocesi e seminario + 250 euro di tassa festa) per diritti di festa rendicontandoli, e quindi gravandoli, sul contributo ottenuto (?). Ma come, si chiede qualcuno: contributi pagati con il contributo ottenuto? Sembra un paradosso. Ma quello che potrebbe diventare causa di malintesi è sicuramente l’operato di quanti si spendono alla buona riuscita di tutto e di loro, stranamente, nemmeno una parola. Quanto hanno speso? Quanti giorni hanno impegnato? Chi li ripaga? La comunità è in debito con loro oltre che per l’impegno anche per aver anticipato soldi propri? Avranno racimolato qualche euro? Lo hanno speso? “Gratis et amore dei” vuol dire fare tutto per amore di Dio. Far sembrare ciò che non è si rivela un volgare torna conto e che Dio ce ne guardi di tali peccati.